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Affinità elettive tra Fashion & Web: il caso Boo.com
di Silvia Passerino

Il sito Boo.com, negozio virtuale -esclusivo e molto "stiff"- dedicato al commercio on line di abbigliamento sportivo e casual, fu lanciato nel Novembre 1999 con grandi investimenti pubblicitari e una sorprendente eco della stampa internazionale. Innovativo, giovane, molto appealing, realizzato con le più avanzate tecnologie e soluzioni grafiche, Boo.com pareva destinato a segnare una tappa fondamentale nella storia del commercio elettronico, come recitava un memorabile articolo apparso l'anno scorso sul Sundey Times (Boo.com aveva sede in Gran Bretagna).

L'imprenditore francese Bernard Arnault, presidente della Louis Vuitton MH, la 21 Investimenti di Alessandro Benetton e la banca d'affari americane Morgan and Goldman Sachs si erano uniti ai fondatori, tre trentenni svedesi, Ernest Malmestn, ex critico letterario appassionato di Internet, Kajsa Leander, ex modella, e Patrick Hedelin, esperto di finanza. In particolare, la 21 Investimenti aveva investito 4 milioni di dollari per avere il 5% della società; all'inizio del 1999 erano stati raccolti 135 milioni di dollari.

Il sito prometteva "mari e monti": un catalogo contenente quasi 4.000 articoli disponibili in tre taglie (lo sportswear ha solo tre taglie: Small, Medium, Large; il margine di sbagliare la misura dal reale al virtuale è minimo), proposto in 8 diverse lingue, aggiornato in tempo reale in quanto collegato ai depositi dei 26 prestigiosi fornitori tra i quali DKNY e Adidas; immagini 3D dei capi d'abbigliamento, la possibilità di zoomare sui dettagli degli articoli in vendita; una "dressing room", ovvero camerini virtuali, nei quali era possibile vestire manichini personalizzati ricreati on line e poi inviarli agli amici tramite e.mail per avere un consiglio; una commessa virtuale -Miss Boo- che non solo seguiva gli utenti durante lo shopping, commentando le scelte, ma elaborava per ogni cliente una scheda da proporre alle successive visite contenente nuovi prodotti consoni al proprio stile di vita e, infine, Boom, un Fashion-magazine virtuale interattivo senza pubblicità e scritto da grandi firme.

Boo.com si è rivelato talmente sofisticato che i problemi tecnici sono subito esplosi. Il sito avrebbe dovuto aprire a Giugno, e solo da Novembre è stato attivato. I primi risultati di vendita sono stati ottimi: solo nel Febbraio 2000, 1.2 miliardi delle vecchie Lire di utile netto. A poco a poco i problemi tecnici venivano risolti, anche se era ancora impossibile navigare nel sito a partire da un Macintosh. Ma già nel Maggio 2000 Boo.com, solo dopo sei mesi di attività, ha chiuso i battenti e se oggi si prova a digitare l'indirizzo www.Boo.com il Server comunica il triste responso: "Impossibile visualizzare la pagina". Dalla svendita di Boo.com sono stati raccolti solo 375 mila dollari. Briciole rispetto ai debiti accumulati, individuati dal liquidatore, la società di consulenza KPMG, in 25 milioni di dollari.

Le principali ragioni del flop possono essere rintracciate in una grave mancanza di risorse finanziarie necessarie a tamponare la falla causata dai forti investimenti iniziali. Un buco da 20 milioni di sterline (60 miliardi di vecchie Lire) determinato dal lento decollo delle vendite. Boo.com perdeva 1 milione di dollari la settimana. Negli ultimi mesi i manager della società hanno affannosamente cercato nuovi investitori nella speranza di risanare la situazione, confortati soprattutto dalla crescita costante degli acquirenti. Ma nessun accordo è stato concluso. Proprio le eclatanti scelte iniziali, come il design del sito, sicuramente modernissimo ma troppo avanzato tecnicamente per essere alla portata dei computer di casa degli utenti, si sono rilevate delle insostenibili zavorre nella crescita del sito. Nelle prime settimane, per un utente che non disponesse di una postazione potente e veloce, era praticamente impossibile accedere a Boo.com.

Boo.com non è mai stato un buon esempio di new-economy: altre cause del fallimento possono infatti essere rintracciate in un sito "pesante" da scaricare, problemi tecnici, un piano strategico oltre misura (apertura in 16 Paesi in lingua locale, costi uguali ai negozi reali, spese di spedizione sempre a carico del mittente), un eccesso di fiducia nel business2consumer e nella propensione ancora acerba dei consumatori a fare acquisti via Internet per articoli problematici come l'abbigliamento, una sostanziale imperizia dei soci fondatori -competenze inadeguate e troppo specializzate in una sola direzione-, investimenti eccessivamente rischiosi derivanti da analisi di mercato poco accurate (già nel Febbraio 2000 Boo.com aveva inaugurato il suo megastore virtuale italiano) e una certa leggerezza degli investitori, che mentre all'inizio hanno portato boo.com ad essere una delle migliori start-up europee per raccolta di finanziamenti, successivamente non hanno saputo seguire l'evoluzione dell'attività ed intervenire al momento opportuno "per correggere la rotta".

La rapida eclissi di Boo.com ha ulteriormente sfiduciato le aziende del settore Moda ad attuare iniziative di e-commerce. Inoltre questa preoccupazione è stata aggravata dai risultati di recenti ricerche condotte dalla Pricewaterhouse Coopers e dalla Forrester Research, che hanno messo in guardia gli operatori del settore sul forte ritardo nel decollo dell'e-commerce applicato a strategie b2c e ad attività di retail, a causa della lenta risposta degli utenti a quest'innovazione, rispetto ai tempi calcolati dalle aziende, le quali dovranno fronteggiare gravi stress finanziari. Nel Gennaio 2001 Fashionmall, portale americano della Moda, ha acquistato il marchio Boo.com per re-inventarlo come sito rivolto ad un target giovane sul quale commercializzare -con modalità molto diverse dalla precedente gestione- una ventina di brand meno costosi e meno famosi. La parabola finanziaria di Boo.com ha suscitato tanto clamore tanto da diventare il soggetto di un film della prossima stagione cinematografica di Vivendi-Universal.

Silvia Passerino

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